Scorrendo le placide distese padane, pigiando l’indice sullo schermo di un qualunque navigatore, potrà capitare di imbattersi nella quadrettatura perfetta della centuriazione romana, intatta – dopo venti secoli – sotto l’occhio algido del satellite.

Un quadrante particolarmente favorevole per chi volesse cimentarsi in questo esercizio è quello che si incontra a nordest di Padova e che ha per vertice settentrionale la cittadina di Camposampiero.

Qui la trama di cardi e decumani tracciata con tecnologia latina nelle terre degli antichi Veneti, signori dei cavalli, scandisce il ritmo di un territorio contraddistinto, per natura, da una rete selvatica di fiumi profondi, di risorgiva, le cui acque corrono verso la vicinissima laguna.

Campagna, si, tuttavia nobile e altolocata meta di delizie agresti e di produttività incisiva, tipica del Nord Est.

Così la ragionata cadenza delle strade si fonde alla caotica armonia della natura dando vita ad un paesaggio complesso: antropizzato con una nota di selvatichezza imbrigliata, soggiacente, vibrante.

Dall’alto degli argini le villette a schiera confondono i loro tetti a quelli delle ville veneziane, all’ombra delle torri in cotto che spiccano in una siepe di antenne della televisione.

Lungo una di queste strade bianche il francescano Antonio, al secolo Fernando Martins de Bulhões, percorse il suo ultimo viaggio diretto a Padova. La dotta città ne avrebbe presto santificato la memoria celebrandolo nella gloria della basilica nota come “Il Santo” ma Camposampiero, nella cornice della sua tranquillità agreste, ne conserva un ricordo speciale.

Al di là delle occorrenze monumentali, il fruscio del vento lungo il viale di tigli che conduce al quattrocentesco santuario è forse ciò che più si approssima all’anima gentile dell’uomo che amava predicare all’ombra di un albero di noce.