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Il Ghetto di Venezia, una città nella città

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La regola fondante che stabilisce le priorità del nostri viaggi è raccontare i luoghi nascosti e dimenticati. Oggi, in occasione della Giornata della Memoria, vi portiamo a Venezia alla scoperta del Ghetto ebraico.

Un luogo speciale che amiamo e che non manchiamo mai di attraversare ad ogni visita, anche solo per una passeggiata veloce, complice la vicinanza strategica alla stazione di Santa Lucia.

Prima di raccontarvi la storia del luogo dobbiamo procedere con una piccola confessione: ciò che più ci attrae, conducendo i nostri passi spesso gravati da telecamere e attrezzature di vario genere verso il Ghetto, è la gola. Non si torna a casa da Venezia senza una scorta di dolcetti ebraici acquistati nei panifici del Ghetto.

Vi raccontiamo questo dettaglio di natura personale, che esula dai tradizionali canoni che caratterizzano i contenuti della testata, perché siamo convinti che la via “della Memoria” vada percorsa tutti i giorni basando i propri itinerari turistici su una cultura il più possibile vasta e in divenire che tragga arricchimento dalla conoscenza. Se è vero che l’acquisizione del sapere passa attraverso le immagini e le parole, è altrettanto fondamentale il fascino magnetico delle passioni e dei sapori racchiusi, nel nostro caso, nei dolci della cultura ebraica veneziana.

Concluso il doveroso preambolo, procediamo: scendendo idealmente dal treno e assaporiamo a pieni polmoni la tiepida aria della città lagunare sin dal primo passo sulla pietra d’Istria che lastrica la città d’acqua e sabbia.

Il Ghetto si situa nel sestiere di Cannaregio dove gli ebrei veneziani si insediarono all’inizio del Cinquecento per volontà del Senato della Serenissima, sebbene la presenza ebraica a Venezia – città di mercanti, regina dell’Adriatico – sia attestata già prima dell’anno mille.

L’area denominata “Ghetto” ospitava, prima di divenire “laguna edificabile”, le fonderie pubbliche per la fabbricazione delle bombarde, processo produttivo che necessitava un’operazione fondamentale ovvero la gettata dei metalli fusi.

Le difficoltà incontrate dagli ebrei ashkenaziti nel pronunciare la “g” dolce della parola veneziana “getto” portarono alla nascita del vocabolo che ha battezzato il primo quartiere etnico della storia.

La vasta area produttiva era già suddivisa in Ghetto vecchio e Ghetto Nuovo e fu proprio da quest’ultimo che prese avvio la colonizzazione ebraica che, per l’appunto su volontà della Serenissima, raggruppò su una sola isola l’intera comunità.

Da questo momento storico in poi, complice il continuo afflusso migratorio che raccolse a Venezia ebrei da tutto il continente, la crescita demografica conobbe un’impennata che portò all’espansione verticale delle costruzioni con edifici che raggiungono gli otto piani e che ancora oggi rappresentano un unicum nel panorama veneziano.

Il boom demografico incontenibile portò, successivamente, alla nascita di altri quartieri ebraici ad ampliamento del Ghetto Novo: il Ghetto Vecchio destinato agli ebrei levantini nel 1541 e il Ghetto Novissimo, aperto nel 1633.

Nel Cinquecento, assieme all’edificazione di veri e propri grattacieli sull’acqua, furono inaugurate anche numerose sinagoghe destinate ad accogliere i differenti gruppi di omogenea provenienza.

Nacque così la Schola Grande Tedesca, la Schola Canton di rito ashkenazita, la Schola levantina degli ebrei di Bisanzio, la Schola Spagnola e la Schola Italiana.

Se la tradizione, nel suo aspetto più stigmatizzato, ci consegna la memoria dell’usuraio Mercante di Venezia di shakespeariana memoria, nella realtà gli ebrei veneziani esercitarono molte attività legate al credito e al commercio rispondendo direttamente alla domanda della popolazione della città d’oro di San Marco che sui traffici marittimi e sulle grandi imprese commerciali aveva fondato la sua fortuna.

Finalmente, con la caduta della Serenissima e l’arrivo di Napoleone, venne eliminata ogni di discriminazione: una volta divelte le porte del ghetto, gli ebrei di Venezia poterono godere dei diritti di tutti i cittadini.

La sanguinosa e straziante vicenda della Shoah ha inferto una ferita profonda a questo piccolo mondo, come a tutti i Ghetti d’Europa e oggi, la comunità ebraica sebbene ridotta a poche centinaia di membri, sta conoscendo una dolce, tiepida primavera.

Cuore silenzioso e discreto di questa “città nella città” sono i campi e i campielli che raccontano una vita antica, lontana anni luce dai percorsi destinati al turismo pesante.
All’ingresso del nostro panificio di fiducia un cartello ci ricorda che le tecniche di preparazione e gli ingredienti utilizzati sono rigorosamente Kasher e, con questa rassicurazione, facciamo scorta dei nostri dolci preferiti: le “Orecchiette di Amman” (paste ripiene di marmellata) e le “impade” (semplicissime golosità a base di pasta di mandorle che non bastano mai).

Per i palati più raffinati non mancano, ovviamente, i ristoranti che fondono la stratificazione di tradizioni culinarie ebraiche di tutto il mondo: qui, la sobria cucina degli ebrei ashkenaziti si fonde ai sapori speziati della tradizione sefardita.

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